venerdì 28 febbraio 2014

SASSOFERRATO (AN), S.CROCE DEI CONTI ATTI, MERGO (AN), CAMALDOLESI, ECC., ECC.
(FOTO, -NON TUTTE PERFETTE- RISALENTI ALL'ESTATE 2012). 

L’abbazia di Santa Croce è stata costruita alla fine del XII sec. dai conti Atti, signori di Sassoferrato. Al suo esterno troviamo lo stemma della congregazione camaldolese (che quando non acromo si può descrivere come d’azzurro a due colombe affrontate d’argento, beventi da una coppa sormontata da una cometa di otto raggi, il tutto d’oro).
La cometa appare dal XVII secolo e in seguito la mitra, per cui l’esemplare che qui si vede dev’essere successivo a quell’epoca.
Ma c’è di più. Posti sopra l’ingresso appaiono affrescati due stemmi che io ritengo essere della Congregazione camaldolese degli Eremiti di Monte Corona. Tale arma fu adottata nel 1525, vale a dire l’anno successivo a quello in cui Clemente VII riconobbe formalmente la Congregazione, rendendola poi autonoma da quella camaldolese nel 1529, cioè nove anni dopo dal momento in cui il monaco camaldolese Paolo Giustiniani, si ritirò a vita eremitica in Monte Corona, presso Perugia. Gli stemmi da me fotografati sono l’arma “antica”, senza corona. Essa fu aggiunta più tardi, con finalità parlanti. Di tale stemma “moderno”, sempre in Santa Croce ho scovato un esemplare sulla lapide di Doroteo Zuccari da Fabriano, Eremita. Camaldulen. Montis. Coronae (e infatti i monaci di quest’ordine, detti “coronesi” fanno seguire al loro nome l’acronimo E. C. M. C.), morto nel 1782. In sinistra araldica dovrebbe essere rappresentato il suo stemma, in destra quello appunto della congregazione in questione, nella versione dotata di corona.

Nella chiesa di San Lorenzo, nella vicina Mergo, poi, ho trovato lo stemma di Gregorio XVI, Barolomeo Alberto Cappellari, che, in destra araldica ha posto lo stemma dei camaldolesi (del cui ordine entrò a far parte nel 1783, divenendone vicario generale un trentennio dopo;) mantenendo nella sinistra quello della famiglia.






SASSOFERRATO (AN), S.CROCE DEI CONTI ATTI, MERGO (AN), CAMALDOLESI, ECC., ECC.
(FOTO, -NON TUTTE PERFETTE- RISALENTI ALL'ESTATE 2012). 

L’abbazia di Santa Croce è stata costruita alla fine del XII sec. dai conti Atti, signori di Sassoferrato. Al suo esterno troviamo lo stemma della congregazione camaldolese (che quando non acromo si può descrivere come d’azzurro a due colombe affrontate d’argento, beventi da una coppa sormontata da una cometa di otto raggi, il tutto d’oro).
La cometa appare dal XVII secolo e in seguito la mitra, per cui l’esemplare che qui si vede dev’essere successivo a quell’epoca.
Ma c’è di più. Posti sopra l’ingresso appaiono affrescati due stemmi che io ritengo essere della Congregazione camaldolese degli Eremiti di Monte Corona. Tale arma fu adottata nel 1525, vale a dire l’anno successivo a quello in cui Clemente VII riconobbe formalmente la Congregazione, rendendola poi autonoma da quella camaldolese nel 1529, cioè nove anni dopo dal momento in cui il monaco camaldolese Paolo Giustiniani, si ritirò a vita eremitica in Monte Corona, presso Perugia. Gli stemmi da me fotografati sono l’arma “antica”, senza corona. Essa fu aggiunta più tardi, con finalità parlanti. Di tale stemma “moderno”, sempre in Santa Croce ho scovato un esemplare sulla lapide di Doroteo Zuccari da Fabriano, Eremita. Camaldulen. Montis. Coronae (e infatti i monaci di quest’ordine, detti “coronesi” fanno seguire al loro nome l’acronimo E. C. M. C.), morto nel 1782. In sinistra araldica dovrebbe essere rappresentato il suo stemma, in destra quello appunto della congregazione in questione, nella versione dotata di corona.

Nella chiesa di San Lorenzo, nella vicina Mergo, poi, ho trovato lo stemma di Gregorio XVI, Barolomeo Alberto Cappellari, che, in destra araldica ha posto lo stemma dei camaldolesi (del cui ordine entrò a far parte nel 1783, divenendone vicario generale un trentennio dopo;) mantenendo nella sinistra quello della famiglia.






martedì 25 febbraio 2014

Una volta ho detto che un inverno mite rende la primavera meno attesa. So che quasi tutti non sono d'accordo. So anche che in quanto a inverni deludenti, questo (almeno da noi) non è stato secondo a nessuno. In omaggio alla stagione che viene, comunque ... rami fioriti. Quello degli Anenperg, Anenberg, Ahnenberg, ecc. ecc. da me fotografati tra il 2011 e 2012 in Alto Adige (sperando di non aver attribuito male lo stemma, laddove non vi era altro che questo, senza scritte). Come commento ad ogni foto ho messo il luogo preciso dello scatto. Un esemplare dipinto su un codice invece si può vedere nel sito della http://www.bsb-muenchen.de/index.php, tratto dal Cod. Icon. BSB 310 (ms. del 1540, Germania del Sud) e visibile al link: http://dfg-viewer.de/show/?set%5Bimage%5D=63&set%5Bmets%5D=http%3A%2F%2Fdaten.digitale-sammlungen.de%2F~db%2Fmets%2Fbsb00001649_mets.xml&set%5Bzoom%5D=default&set%5Bdebug%5D=0&set%5Bdouble%5D=0&set%5Bstyle%5D=
Merano, Duomo, Gennaio 2012

Castel Coira, Sluderno, 

Gennaio 2012



Laces BZ 

Gennaio 2012





Laces, Chiesa di S. Spirito all'Ospedale, Estate 2011

lunedì 3 febbraio 2014

"Proprio ora che è appena finito Gennaio"( Silvia Boldrini) posto una lettera patente originale datata 9 Gennaio 1813. E' il documento ufficiale con cui Napoleone dotava Brescia dello stemma di "Buona Città". Il leone azzurro (lampassato e caudato di rosso) in campo argento mutava quindi per un paio d'anni (se non erro) in un: d'argento al leopardo illeonito di rosso; al capo di verde, caricato dalla N sostenuta dalla pezza e accompagnata da tre seifoglie* malposti, il tutto d'oro (la tradizione parla di rose, ma a me non paiono rose araldiche). La firma in calce è quella autografa di Napoleone, con tanto di schizzi d'inchiostro. Un po' di effetto l'avercela lì di fronte me l'ha fatto. La lettera è conservata negli uffici del Direttore dell'Archivio di Stato di Brescia, dove è stata da me fotografata l 17 Maggio 2011.


















Prima Pagina: Lettere patenti/colle quali S M Imperatore e Re/ accorda/uno stemma particolare e/delle livree alla Buona Città/di Brescia
Seconda Pagina: Napoleone/ Per la grazia di Dio e per le Costituzioni/ Imperatore de’ Francesi/RE D’ITALIA/Protettore della confederazione del Reno/e Mediatore/della Confederazione svizzera Re/A tutti/quelli che vedranno le presenti, salute
Terza Pagina: Avendo/Noi determinato/col nostro decreto del giorno diecisette (sic) gennaio milleottocentododici/Che quelle città le quali desiderassero di ottenere la facoltà di esporre ed usare uno/stemma particolare potessero, dopo di averne riportato la regolare autorizzazione,/dalle competenti Autorità amministrative indirizzare le loro domande al Cancelliere/ Guardasigilli della Corona, il quale prenderebbe su di esse i Nostri ordini,/ Il Consiglio Comunale/della Buona Città di Brescia/ ha deliberato di approfittare di questo favore, ed in conseguenza il Signor Cavaliere Tommaso/de Balucanti Podestà della medesima debitamente autorizzato si è presentato al/Cavaliere Guardasigilli a cagione di ottenere dalla Nostra Grazia le Lettere Patenti/ di concessione delle Armi e delle Livree alla Nostra Buona Città di Brescia./Essendoci/Noi degnati di/prendere in considerazione una tale domanda, e volendo ricompensare la fedeltà e/ l’attaccamento alla Nostra persona, che Ci ha mostrato in tutte le occasioni questa/Buona Città; sopra rapporto del Cancelliere Guardasigillie e sentito il Consiglio del/sigillo de’ Titoli; Noi abbiamo colle presenti segnate di Nostra mano concesso e/ concediamo alla Buona Città di Brescia Capoluogo del Dipartimento/ del Mella la facoltà di esporre ed usare dovunque gli Stemmi e le Livree/così come sono enunciate nelle presenti.
Quarta Pagina: La Buona Città di/Brescia/porta d’argento al leopardo illeonito di rosso con la coda rivoltata/terminato dal capo di verde colla lettera N d’oro posta nel cuore/ed accostata a tre rose a Sei foglie, del medesimo; Cimato dalla/corona murale a Sette merli, d’oro, sormontato dall’aquila na/scente al naturale, tenente tra gli artigli un caduceo d’oro, in/fascia: il tutto accompagnato da due festoni intrecciati di/ulivo e di quercia dell’ultimo, divisi tra i due fianchi,/ivi congiunti e pendenti dalla punta./ Livree/ Giallo e Bianco (segue la riproduzione dello stemma) Incarichiamo il Nostro Cancelliere Guardasigilli di comunicare le/presenti al Senato Consulente e di farle trascrivere sui suoi Registri come pure su quelli del/Consiglio del Sigillo de’ Titoli, e dovunque sarà necessario, perché tale è il Nostro buon piacere./ E affinchè questa Nostra risoluzione ottenga un effetto compiuto e stabile per sempre il Nostro/Cancelliere Guardasigilli, in virtù de’ Nostri ordini, vi farà apporre il Nostro Gran Sigil/lo in presenza del Consiglio del Sigillo de’ Titoli. /Dato dal Nostro Palazzo Imperiale delle Tuileries questo giorno nove gennaio/dell’anno di grazia milleottocentotredici, e del Nostro Regno Ottavo/ (segue firma autografa di Napoleone)/Sigillato a Milano questo giorno diciotto febbraio dell’anno milleottocentotredici/ (poi, a sinistra): Il Cancelliere Guardasigilli della Corona/Il Duca di Lodi (?)/Trascritto sul Registro del Senato/il giorno ventidue febbraio milleottocentotredici/Il Cancelliere del Senato/Il Conte Guicciardi/ (e sulle stesse righe, ma a destra:) Trascritto sul Registro del Consiglio del Sigillo de’ Titoli/Registro F Foglio III/L’Assistente al Consiglio di Stato, Segretario Generale/ G Borgazzi.






L'introduzione del mio libro sullo stemma civico di Idro. Non l'ho ancora ricontrollata. Abbiate pietà. Abbiatene anche dopo che l'avrò ricontrollata.

"Se confidi a qualcuno di occuparti di araldica, è probabile che la prima domanda che ti venga rivolta sia: “Perché?”. Il bello viene quando chi ti interroga scopre dal tuo farfugliare qualcosa, che non lo sai nemmeno tu. Un’altra domanda, vale a dire: “A cosa serve l’araldica?” vanta invece almeno due-tre risposte “ufficiali”, buone da utilizzare come primo soccorso: “l’araldica è scienza ausiliaria della storia”; oppure “strumento indispensabile per lo storico” o ancora “talvolta utilissima per la datazione di opere d’arte, cronologicamente incerte”. Tutto vero? Tutto vero, ci mancherebbe. Ma.
Ma questa visione “archeologica” dell’arte/scienza che amo sperando di non recarle troppo torto con il mio inesperto agire, non mi soddisfa, o meglio non risponde quasi per niente alla domanda. E parte da un presupposto assai errato: ritenere che non vi sia una richiesta ed una conseguente produzione di stemmi attuali, e che quindi non esista che una prospettiva: quella della contemplazione di materiale araldico antico. Una scienza morta, insomma, o meglio considerata tale perché non se ne conoscono e non se ne individuano la valenza ed i percorsi artistici e antropologici attuali. Come se si ritenessero estinti l’aquila o il leone (esempi assai araldici…), perché a forza di esaminarne scheletri, non si disponesse più delle modalità cognitive necessarie ad individuarne esemplari tuttora vivi e vegeti. Nulla di più sbagliato, ripeto. Sussiste un crescente interesse per l’araldica intesa come strumento “contemporaneo”, e, tenetevi forte, esistono meravigliosi artisti e studiosi in grado di soddisfare tale interesse. Chi come me è convinto che l’araldica “serva” all’oggi, pertanto, non si accontenterà mai di vederla riconosciuta soltanto come mezzo insostituibile di interpretazione del passato. Essa soddisfa nella contemporaneità, anche se in maniera –lo riconosciamo- incalcolabilmente meno vasta e generalizzata, lo stesso identico bisogno (un vero bisogno) che ha assolto meravigliosamente nel passato, quello dell’autoidentificazione, dell’autorappresentazione e soprattutto della differenziazione di una persona, di un ente, di una famiglia. Ma anche queste sono formulette che lasciano il tempo che trovano, e di tempo per decriptarle e svilupparle ce ne vuole. In realtà, in altra sede*, ho tentato l’impresa, ma non è certo detto che vi sia riuscito. Qui più che all’analisi scientifica o sedicente tale, lascio il compito di spiegare e di spiegarmi alla poesia, mezzo assai più efficace. E lo faccio con una frase tradizionale di un grandissimo popolo, che più distante dall’humus in cui è sorta l’araldica europea non potrebbe essere stato ed essere (e che con tale humus in realtà dovette fare dei conti tristissimi): i Cheyenne. «Forza Antica la giubba di pelle che indosso ha grandi poteri. Essa mi protegge da guerre e malattie. Me l' ha data mio padre con queste parole: Indossa la mia forza, figlio mio, sono io che te la dono!». Non voglio certo qui intavolare dibattiti che non saprei condurre sulla differenza culturale -e quindi sostanziale, in chiave interpretativa-, che separa il poeta Nativo che ha scritto e me che ascolto. Io racconto solo sensazioni, e se provate a sostituire il termine “giubba di pelle” con il termine “stemma” (lasciateci pure “indosso”…non ci sta male per niente) capirete quali siano le mie in relazione all’araldica. Le mie e non solo mie, perché esse, e le loro conseguenti manifestazioni plastiche, sono diffuse molto più di quanto si creda. Basta sapersi guardare intorno.
Detto tutto ciò, capire i motivi che mi hanno spinto a cercare di dire qualcosa sullo stemma di Idro non è impresa particolarmente ardua. L’idra è per me il cuore che pulsa al centro di tutte le suggestioni e le sensazioni che “appartenere” alla sua terra sa trasmettermi. Io non ho generazioni passate su cui far poggiare la mia esistenza tra le vie di Idro, sono un nano che non può stare sulla spalla di alcun gigante, per dirla alla Bernardo di Chartres; nessuno dei miei antenati ha calcata alcuna delle contrade del borgo, in passato. In tal senso sono solo, in fondo. Si può dire sia un apolide innamorato del luogo nel quale ha sempre vissuto. E allora mi piace immaginare il flusso di vite ormai trascorse come enormi fiumi che si intrecciano tra loro, dei quali gli idrensi che incontro sono solo la goccia più recente; mi piace quando sento dire: “la mia famiglia è sempre stata di qui”, come mi piace pensare a tratti somatici o caratteriali che abbiano attraversato le folli frontiere del tempo arrivando indenni sino ad oggi. E ancora sono felice quando qualche anziano le riconosce e ne parla, snocciolando rosari di genealogie che mi resteranno ignoti e incomprensibili per sempre. Perché dico tutto questo? Perché io non voglio millantare appartenenze di cui non posso vantarmi: la mia permanenza in Idro è un soffio e non so nemmeno se potrò perpetuarla. Ma dell’amore che provo per questo grumo di case incastrate tra acqua e monte (amore magari bislacco o incompreso, o solo incomprensibile) sono fiero e geloso. E allora parlare dell’idra come ne parlerò io nelle prossime pagine, spero contribuirà minimamente all’enciclopedia del sapere locale ma non vorrà mai costituire un presuntuoso piantare picchetti di appartenenza in una terra in cui sono ospite da nemmeno un cinquantennio. Questo libro vuole essere semmai e sicuramente, per quel che le mie capacità hanno concesso, un lavoro di impronta scientifica, ripulito da quelle romanticherie che ancor oggi infestano molti lavori di natura araldica, ma forse è più una lettera d’amore. Se dovrà essere ricordato, lo si ricordi così.
Gennaio 2014"

(Fabio Bianchetti diritti riservati).