martedì 16 dicembre 2014


URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO-9) L’AQUILA

Ho scattato poi alcune foto “panoramiche” da cui si possono desumere (nonostante la scarsa qualità delle stesse, dovute a povertà del mezzo tecnico, povertà e stanchezza del soggetto scattante, foreste di piedi, gambe e gente frettolosa, ecc.)  altre imprese di cui non si è ancora parlato. Nella foto 1, ad esempio, oltre alle già incontrate mete, alla bombarda, all’ermellino e al rovere …”Roveresco”, ecco che si possono notare  l’ara della sibilla cumana (Ceccarelli, p. 137, che la vuole impresa di Guidobaldo II, quinto duca d’Urbino; terza in alto da sinistra, tra la bombarda e la meta) e il tempio della Virtù (sempre risalente a Guidobaldo II, a destra del rovere) –e di entrambe parleremo in seguito, esattamente  ai “paragrafi” 11 e 12- nonché, lontana e semicoperta (quasi a voler poeticamente ricordarci  che essa è la più antica, almeno stando al Ceccarelli –p. 20- e quindi la più nascosta e remota) l’aquila.     
Partiamo da questa, un’impresa (anzi  “impresa primigenia di Federico” per dirla con Paolo dal Poggetto nella sua relazione sugli “Uomini d’arme” presenti nell’appartamento della Jole del Palazzo Ducale. Cfr.: Piero e Urbino, cit., pp. 290 e segg.)  per parlare della quale non si può non farlo –al contrario che per le altre- anche dello stemma, visto che ne fa doppiamente parte, anche se con varianti, ed è quindi, in fondo, un’impresa per modo dire. Io la valuterei più come un elemento araldico.  L’autore appena citato ci racconta come il Nardini sostenga che l’aquila armata e diademata di rosso fosse stata scelta dal conte Antonio di Carpegna, signore di Montecopiolo e di San Leo, ghibellino. Si dice che il rosso degli artigli e della corona fu scelto in memoria del “sanguinoso tumulto da lui sedato in Roma contro l’imperatore Barbarossa, dal favore del quale trasse origine la grandezza della sua Casa (realtà o, una volta di più, il consueto indulgere in inverificabili vicende carolinge? –nota mia-). Anche la città di Urbino, quando ancora si reggeva con proprie leggi, innalzava nel suo stemma l’aquila imperiale. I Montefeltro, prima di estendere il loro dominio a Urbino, continuavano a fregiarsi dello stemma con le tre bande d’argento in campo azzurro della famiglia dei Carpegna, ma assoggettata Urbino, cambiarono le tre bande d’argento in oro, ponendo in quella superiore l’aquila nera degli Urbinati; così i signori feudatari e i loro sudditi ebbero da allora uno stemma comune” (Ceccarelli, che cita, come detto, un’opera del Nardini, del 1931, dal titolo Le imprese o figure simboliche dei Montefeltro e dei Della Rovere, p. 4).

Dissente totalmente da questa tesi il Lombardi nel suo  “I simboli di Federico di Montefeltro” (in Piero e Urbino, cit. p. 135 e seguenti). Secondo lui “l’originario stemma dei Conti di Montefeltro” si badi bene “prima che diventassero conti di Urbino tra il 1226 e il 1234”, era già quello con le tre bande d’oro (e non argento) in campo azzurro e già munito di aquiletta nera, anche se il Lombardi stesso la vuole posta nel “capo dell’impero” (che nella ripartizione classica dello scudo operata dal Ménestrier, “coprirebbe” i punti A-B-C) che però poi dimostra di confondere con il “punto d’onore” (che invece sarebbe il punto E) , in seguito nominato poi “punto d’onore del capo dell’impero” (che, per quel che posso immaginare, potrebbe trattarsi del punto B).  Cita numerosi esempi di tale stemma (sigilli e armi che vanno dal 1220 al 1404), ma non riportandone alcun esempio figurativo noi non riusciamo a risolvere il dubbio. Quel che più conta, però, e che, stando sempre al Lombardi, una volta acquisito il comitato di Urbino (da Federico II), “i conti di Montefeltro conservarono lo stesso stemma a testimonianza del loro dominio per volontà imperiale e non papale, né per accordo con la comunità o con il vescovo”. Ma “affiancato a questo emblema” (ed è qui che sorge la polemica con il Nardini, e indirettamente quindi con il Ceccarelli, che la riprende)  “[…] figura un altro distinto stemma con un’aquila nera in campo oro: quella di Urbino. Ecco che allora bisogna sfatare una volta per tutte che l’aquiletta entro lo stemma sia stata assunta dai Montefeltro a seguito della loro acquisizione del comitato d’Urbino” (sottolineatura mia).   In realtà, aggiunge l’autore, quell’aquiletta significava ben altro, cioè come già ricordato, una discendenza di matrice ghibellina della loro investitura comitale originaria, dovuta “con tutta probabilità” al Barabarossa.   Nel frattempo Urbino aveva come stemma un’aquila nera in campo oro, “ma questa rimase come simbolo del vescovo cittadino e poi come emblema della comunità, senza passare nello stemma feltresco, almeno fino a Federico, conte e poi duca”.  Il motivo? Stando al Lombardi è chiaro. Federico, dopo la morte del fratellastro conte Oddantonio, di cui tutti sospettavano il primo come mandante (cfr. Roeck e lo stesso Lombardi) “dovette venire a patti con la comunità di Urbino. Il suo potere non derivava più da una desueta investitura imperiale, né solo da un vicariato papale, ma dall’adesione cittadina. Ecco perché sin dagli inizi della sua signoria Federico fu costretto a inquartare l’aquila urbinate con le tre bande feltresche. Su questo punto la scienza araldica è concorde: le inquartature sono preminentemente espressioni pattizie”. A riprova di ciò l’autore cita il sigillo del vescovo Corrado (vescovo di Urbino, 1313), con i suoi due stemmi ovali distinti, l’uno con l’aquila urbinate e l’altro con le bande feltresche comunque munite di aquiletta;  o gli stemmi sui sepolcri gotici del conte Antonio e Guidantonio  che come  i loro avi erano distintamente conti di Montefeltro e conti di Urbino e conseguentemente recavano due “distinte insegne araldiche”. Insomma come a dire che se l’aquila successivamente  inquartata con lo stemma a bande feltresco, fosse quella che anticamente stava appollaiata tra le bande medesime, probabilmente essa sarebbe sparita dalla vecchia collocazione per entrare in quella nuova.  Il fatto che sia rimasta sia qui che là, va a maggior riprova che di due aquile distinte si tratti, come distinti sono i loro significati giuridici.

Inserisco poi una foto  (2)  che chiarisce un concetto del Lombardi, il quale, dopo aver asserito che lo stemma inquartato (aquila/bande) fu lo stemma personale di Federico nei primi decenni del suo dominio, sostiene che il Duca “insinuò un’operazione di sineddoche (immagino sostituendo o evidenziando una “porzione” per il “tutto”, nota mia) dello stemma, con preminenza per quella parte che contrassegna emblematicamente la figura del signore, cioè la sola aquila. A ciò contribuiva il marcato profilo aquilino del personaggio” dovuta al famoso incidente nel torneo del 1451, incidente che costò un occhio al signore di Urbino e che lo costrinse a resecare l’attaccatura del naso (altrove ho già detto dell’insinuazione che vuole come questa operazione fosse in realtà stata espressamente voluta dal futuro duca, per poter meglio disporre del campo visivo del solo occhio rimasto, anche nella zona “morta” dovuta alla perdita dell’altro. Ricordiamo che il suo mestiere fu sostanzialmente la guerra, non doveva essere roba da poco eseguirlo con il cinquanta per cento di vista in meno…).
 





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